Popolazione e welfare. Il fragile equilibrio
Istat e Censis. Meno reddito e meno figli, più vecchi e più poveri
Se giustamente ci felicitiamo del fatto che la vita media si stia allungando, che l’Italia sia tra i paesi più longevi del mondo, forse dovremmo pensare un po’ di più a ciò che questo significherà in termini di gestione del welfare e del sistema pensionistico nazionale, e più in generale a quanto i mutamenti demografici peseranno sul nostro futuro, quello di un paese dose si nasce sempre di meno e si invecchia sempre di più. Un paese in cui secondo il recente report Working better with age dell’Ocse – senza interventi adeguati – entro il 2050 il numero dei pensionati sarà superiore a quello dei lavoratori.
A questa cornice aggiungiamo un piccolo quadro di dati molto italici, fornitici a inizio anno dall’Istat a proposito del reddito e delle condizioni di vita nel nostro paese (i dati elaborati sono del 2018). In sintesi:
– il 50% delle famiglie residenti in Italia ha un reddito mediano non superiore a 25,426 euro (2.120 euro al mese);
– il 20,3%, circa 12 milioni e 230 mila individui, risulta a rischio di povertà, reddito inferiore a 10.106 euro (842 euro al mese);
– il 27,3% è a rischio di povertà o esclusione sociale;
– in comparazione con il 2007 i redditi familiari da lavoro autonomo sono calati del -20% in termini reali, quelli da lavoro dipendente del -11.4%, ed i redditi da pensione e trasferimenti pubblici del -1.5%;
– La retribuzione netta che resta a disposizione del lavoratore rappresenta poco più della metà del totale del costo del lavoro (il 54.4% pari a 17,277 euro).
Questi dati possono essere letti da molti punti di vista, ma uno è particolarmente significativo guardando al nostro attuale sistema di welfare.
La metà delle famiglie italiane ha un reddito inferiore ai 2.120 euro al mese, cui corrispondono versamenti pensionistici che potranno garantire una pensione, sempre che all’epoca ancora essa esista, di poco superiore a quella minima. In altri termini, metà delle famiglie non avrà di che vivere.
Non solo, con un reddito mediano così scarno è impensabile che tali famiglie possano accumulare qualche risorsa per la vecchiaia. E se anche lo facessero a costo di sacrifici disumani, con il regime di tassi negativi oggi vigente il gruzzolo messo da parte in banca calerebbe invece di crescere nel tempo.
In parole povere, la metà dell’attuale popolazione italiana sta candidandosi a vivere in una società da incubo. Né possiamo illuderci che lo stato possa disporre di risorse sufficienti a lenire la situazione senza implodere.
E non è finita qui. Se integriamo questi dati con quelli prodotti dal recente 53° Rapporto Censis (Demografica e sistema welfare tra sfide e soluzioni) il quadro generale peggiora, se possibile.
Nel 2039 la popolazione over 64 supererà quella degli under 35, il 31.6% della popolazione contro il 31.2%. Teniamo conto che nel 1999 gli under 35 costituivano il 42.8% della popolazione. Questo è dovuto ad un calo delle nascite ma anche ad un esodo dei giovani all’estero, aumentato dal 2017 del 226,8%.
È facile dedurre come quota rilevante delle persone che raggiungessero l’età pensionabile nel 2039 potrebbe al massimo usufruire di una scarna pensione sociale, sempre poi che all’epoca lo stato abbia ancora risorse sufficienti per erogarle.
Proseguendo, ecco un altro dato molto preoccupante: ad oggi, il 20.8% degli anziani risulta non autosufficiente.
Prevedere milioni di posti letto in gerontocomi sarebbe visionario, né potrebbe farsene carico, per gli stessi motivi, il servizio sanitario nazionale.
Sempre che la si trovi, una badante percepirebbe circa 1.500 euro lordi al mese, ossia di più di quanto il pensionato piglierebbe dalla pensione. È una soluzione improponibile.
Resta la famiglia, ma larga quota di quelli che saranno i pensionati di qui a venti anni è senza prole: essendo single, non ha famiglia cui appoggiarsi. Non solo, ma con un rapporto di un giovane per ogni anziano, mancheranno semplicemente le braccia necessarie per accudirli. Né ci si illuda che i giovani rimasti, già gravati dai propri vincoli familiari, si possano anche fare carico di quanti non abbiano figliato per tempo. Né, tanto meno, che ne abbiano poi voglia.
In conclusione, di norma si raccoglie ciò che si è seminato, sempre poi che l’alterna sorte non si accanisca.
Per contro – dicevamo – la popolazione è sempre più longeva, con un aumento degli over 64 in vent’anni del 5%, di cui ad oggi il 27,7% è rappresentato da over 80. Inoltre, la buona notizia – e non possiamo certo definirla diversamente – è che l’aspettativa di vita alla nascita si allunga e nel 2041 si stima che arriverà a 88,1 anni per le donne e a 83,9 anni per gli uomini.
Questi nuovi equilibri demografici si ripercuotono inevitabilmente sul sistema welfare, chiamato ad affrontare importanti sfide sia sul fronte della salute che della pensione.
Sembra quasi scontato: una popolazione più anziana è maggiormente soggetta innanzitutto al rischio della non autosufficienza, dato confermato dai numeri emersi nel rapporto:
– + 25% delle persone non autosufficienti dal 2008 (di cui l’80,8% ha più di 65 anni)
– il 20,8% degli anziani risulta non autosufficiente.
Su questo fronte, gli italiani sono soddisfatti dai servizi offerti dall’assistenza pubblica o le conseguenze della non autosufficienza gravano anche sulle famiglie?
Dal rapporto emerge che il 56% degli italiani si dichiara non soddisfatto dai principali servizi socio-sanitari presenti nella propria regione, con il peso delle cure e del sostegno economico che ricade in gran parte direttamente sui medesimi.
In genere, infatti, nella terza e quarta età l’entrata economica principale, se non l’unica per i più, è rappresentata dalla pensione pubblica, purtroppo troppo bassa per far fronte a ciò che la non autosufficienza comporta nella vita di una persona. Ma più in generale, la maggior parte delle volte la pensione pubblica è troppo bassa per garantire un tenore di vita adeguato.
Proprio con ciò si apre la seconda grande sfida che una popolazione che invecchia comporta sul sistema welfare: la pensione pubblica. Da un lato la sostenibilità di un sistema pensionistico a ripartizione e dall’altro pensioni che non coprono il reddito goduto da lavoratori e che lasciano scoperta una fetta piuttosto rilevante delle entrate economiche nella vita di un pensionato.
Se la popolazione invecchia e nello stesso tempo cresce l’inoccupazione, il rapporto tra pensionati e lavoratori entra inevitabilmente in crisi, motivo alla base dell’introduzione del metodo di calcolo contributivo della pensione e di uscite dal mondo del lavoro sempre più avanzate.
Sul punto il Paese è diviso: se per il 43,2% degli italiani l’età di pensionamento deve essere parametrata alla speranza di vita, il 45,2% ha un’opinione esattamente opposta.
Di fatto, però, pensionamenti più rigidi rappresentano una scelta obbligata.
Ecco, dunque, che una pensione pubblica calcolata in base ai contributi versati nel corso della carriera anziché sulla base della retribuzione degli ultimi anni di lavoro si prospetta meno generosa, soprattutto per le generazioni più giovani, anche alla luce del mutato contesto occupazionale.
Ma a questo una prima “soluzione” c’è. Almeno per chi può permettersela: la previdenza integrativa, forma di risparmio finalizzato proprio ad integrare la pensione pubblica a tutela del proprio tenore di vita. Anche se ad oggi meno del 35% della platea potenziale è iscritta ad un fondo pensione, gli incentivi per farlo ci sono tutti, da un regime fiscale agevolato, alle flessibilità e tutele dello strumento.
Non è molto e non è la panacea di tutti i mali del sistema. Ma è almeno un primo argine.
Spetta alla politica (e certo anche a ciascuno di noi cittadini) misurarsi con la realtà dei fatti. Potremo contarci?, è il dubbio che ci attanaglia.